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IL MISTERO VON BULOW
(REVERSAL OF FORTUNE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 22 marzo 1991
 
di Barbet Schroeder, con Jeremy Irons, Glenn Close, Ron Silver, Annabella Sciorra (Stati Uniti, 1990)
Uno dei grandi segreti dell'universalità del cinema americano si chiama sceneggiatura: riesci il supporto letterario che regge le immagini, e queste saranno (praticamente) riuscite. Barbet Schroeder è francese, ma se questo è sicuramente il miglior film della sua ormai lunga carriera è anche perché girato in America.

La storia dell'aristocratico e sprezzante Claus von Bülow, accusato e condannato in un primo tempo per aver ridotto allo stato perennemente comatoso la propria moglie iniettandole dell'insulina, quindi prosciolto in appello con una decisione che fa ancora discutere, è troppo noto e recente per farne opera di suspense, o comunque di trattamento "poliziesco" tradizionale.

Schroeder ha avuto il primo merito di capirlo; iniziando il suo film dalla fine. Da quando von Bülow, ormai condannato, si rivolge al celebre avvocato ebreo Alan Dershowitz (autore del libro sul quale si basa la sceneggiatura) perché lo riabiliti in appello. Addirittura, dalla "voce" della vittima: che dal proprio stato vegetativo commenta le prime immagini del film con un "questo era il mio corpo"...

Doppia intuizione. Poiché, a partire da quel momento, il film si costruisce sulla dualità: il quesito colpevole / innocente diventa dapprima quello avvocato onesto / cliente ambiguo. Poi ancora: ambiente e modo di vita dello studio di avvocatura (dinamico, diretto, dialettico, umano) e quello delle dimore aristocratiche (convenzionale, inibito, ambiguo, deviante). Ed in seguito, per quel processo tipicamente cinematografico che permette all'ambiente di significare le psicologie, all'interno dei personaggi. L'itinerario "poliziesco" (impossibile da condurre a termine, e logicamente lasciato irrisolto al termine del film) si fa cosi viaggio all'interno dei personaggi. Doppiamente affascinante: per le sfumature, ben altrimenti sottili ed interessanti, che distinguono le contraddizioni dello spirito, le ambiguità della morale, i distinguo delle psicologie da quelle degli avvenimenti materiali.

Schroeder ci mette del suo: con dei dialoghi scavati di fino, un montaggio sapiente, una misura che non scade mai nello schematismo (di qui i buoni, di là i cattivi), che non si lascia mai tentare dal moralismo o dal sentimentalismo. Che si limita ad osservare, quindi ad analizzare la casistica del quotidiano. A risultare determinante è allora quell'attore che dal dualismo interpretativo, da quella facoltà di scindere all'interno di un medesimo personaggio due diverse verità altrettanto credibili (o incredibili) ha concepito giardini magici dei dubbi e delle certezze come La donna del tenente francese di Karl Reisz e Inseparabili di David Cronenberg. Jeremy Irons non è soltanto portentoso, come sempre, ne Il mistero von Bülow: è l'esempio di come si possano tradurre in termini umani e poetici quelle disquisizioni filosofiche o comunque astratte che ci portano a dire che la Verità, fortunatamente, è un bene non solo irrefutabile, ma pure disquisibile.


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